Una magica Val di Rose


“Non sempre le ciambelle vengono col buco” recita un antico proverbio, e molte volte questo adagio, alla montagna, si adatta perfettamente. Nella nostra mente i progetti delle escursioni nascono con i contorni precisi, netti; orari, sentieri, tempi in vetta e ritorno, tutto viene programmato. Quando non insorgono sorprese si riesce a portare a casa l’intero progetto, e per fortuna è il più delle volte, quando invece insorgono delle situazioni impreviste qualcuna o più di qualcuna delle fasi programmate saltano, mettendo a repentaglio la riuscita dell’escursione stessa. E’ in questi frangenti che bisogna essere capaci di saper rimodellare gli accadimenti e ciò che ci sta intorno per non vanificare la giornata; è in questi casi che bisogna ricordarsi che la montagna è una fonte inesauribile di momenti di leggerezza e disporsi a raccogliere il massimo di ciò che ci verrà dato. La giornata di oggi è un po’ riassumibile in questa prefazione. Villetta Barrea ci accoglie ancora deserta e silenziosa; percorriamo i sui viottoli ciottolosi timorosi di svegliare qualcuno fino a raggiungere la parte alta del paese, proprio dove ha inizio il sentiero I1. Armati di un entusiasmo incontenibile attacchiamo il sentiero I1 dalla piccola scalinata del paese che lo introduce; sono 7 e 20 di una mattina fresca ma non fredda, chiara e luminosa nonostante il sole non sia ancora spuntato. Volevamo fare un giro immenso all’interno del Parco ed invece ……. sentite un po come è andata: poche rampe agili e siamo sul primo balcone sul Lago. Chissà quante foto avrò da questo punto d’osservazione ma non resisto e ne faccio ancora. La Valle delle Rose è li davanti a noi; il Boccanera e il monte Sterpi d’Alto si stringono e la valle diventa una stretta V boscosa. In mezzo, laggiù in fondo le prime creste imbiancate del Capraro si intuiscono già. I colori sono tenui mentre il sole spunta dietro Barrea, il cielo è libero da nubi ed annuncia un azzurro sfavillante, il lago, povero di acqua, è con la sua immobile piattezza, l’emblema della pace di quei luoghi. Intorno ai 1400 metri compaiono le prime tracce di neve, bassa e solida, una bella prospettiva per i restanti seicento metri di dislivello. Il tempo di salire di quota di soli cento metri ed il nostro entusiasmo frana di fronte ad un più abbondante strato nevoso depositatosi solo due giorni prima e quindi ancora affatto consolidato. I segni dell’abbondante nevicata sono sui rami degli alberi che sono ancora merlettati da fiabeschi cuscinetti di neve. Ora avanzare sta diventando affannoso, ogni passo è un affondo di quindici centimetri e ancora di più nelle quote più alte, siamo decisamente più lenti. Il sentiero non esiste più ma nella valle è impossibile sbagliare; ci diamo il cambio molto spesso per aprirci un varco nella neve fresca e cercare di stancarci il meno possibile. Solo Luca è baldanzoso, io E Giorgio (GDS) siamo silenziosi, forse per cercare la concentrazione necessaria per affrontare lo sforzo che ormai sappiamo sarà la costante delle giornata. Intanto i colori si fanno netti, il sole ormai alto ha dato la tonalità dell’azzurro al cielo che fa da sfondo agli alti fusti della faggeta. Le creste del Boccanera sono un merletto dolomitico imbiancato incastonato nel blu. Intorno ai 1700 metri usciamo dal bosco e la parte alta della Valle si apre davanti a noi come mai abbiamo potuto vedere. Un ambiente puro, di una solitudine devastante eppure così intimo e avvolgente; non una traccia di animale, di un essere umano, di una qualsiasi presenza, Dolci rotondità che a salti portano lo sguardo verso le creste e verso Passo Cavulo ormai a vista si susseguono in un pendio infinito, distese immacolate di una neve incontaminata che sono una meraviglia e che è un peccato corrompere. L’ombra del Boccanera si proietta nella valle aggiungendo contorni scuri ai toni delle linee bianche dei rilievi. E’ tutto un magnifico quadro di toni su toni, di bianco che passa dal buio delle ombre allo sfavilarre dei cristalli di neve colpiti dal sole. Belle sono anche le nostre tracce di salita proiettate nell’ambiente incontaminato; stiamo dipingendo nella natura e non ce ne stiamo accorgendo. Affidiamo alle nostre macchine fotografiche le emozioni che ci stringono l’anima e ci sorprendono. Solo la fatica che proviamo nei continui affondi nella neve fresca ci distoglie dagli stupori che sono intorno a noi ma recuperiamo nelle soste ormai sempre più continue. La Valle delle Rose è ormai incastonata giù in fondo e dietro la mole del Greco imbiancato come mai chiude il quadro invernale di questo magnifico angolo di mondo. Fuori dagli alberi, la purezza delle rotondità della valle ricoperta di neve viene interrotta solo dalla nostra traccia di salita. Un ricamo nella incontaminata linearità delle linee naturali della valle. Le soste ritemprano il corpo e lo spirito. Riprendiamo a salire e a tratti sosteniamo degli autentici corpo a corpo con la montagna; in alcuni tratti affondiamo fino alla cintola, solo indietreggiando e cambiando direzione riusciamo a venirne fuori. Più in alto uno sciatore sale sbucato dal nulla, lui si che non ha difficoltà ma preferisco la mia di realtà. Mi sento immerso nella natura, sfinito, stanco da mettere in dubbio la riuscita dell’intera giornata, ma felice di esserne immerso e a tratti sovrastato. Saliamo, a fatica, ma lentamente saliamo, a svolte ora strette ora larghe ci andiamo a prendere il Passo Cavulo che apre gli orizzonti alla vastità delle montagne del Parco. Il vento nel passo è freddo ma basta scendere di alcuni passi per farsi investire dal calore del sole. Tutto è incontaminato, vergine, perfetto. Dallo Iammiccio al Balzo della Chiesa l’orizzonte che ci si para davanti è uno dei più belli del nostro Appennino; l’abbondanza della nevicata ed il blu intenso del cielo lo rendono unico più che mai. Scendiamo nella valle per aggirare il Monte Capraro; nella conca lo strato di neve aumenta e con i centimetri di neve aumenta anche la nostra difficoltà di avanzare. Siamo lenti, come mai, in me la certezza di non chiudere il progetto è pari alla stanchezza che si fa devastante. Ormai io e Giorgio formiamo una coppia affiatata che si sorregge nello sforzo, Luca è la davanti, a tratti non lo vediamo nemmeno che procede incontenibile e instancabile. Conquistare il Rifugio di Forca Resumi è stata una vera estenuante battaglia, cerchiamo di toglierci dagli strati profondi, saliamo la cresta del Capraro, tutto è buono per evitare sforzi supplementari e alla fine, dopo venti minuti da Luca sbuchiamo sulla sella del rifugio, finalmente anche se solo per ora, sulla pietra solida ed asciutta. Per me la giornata poteva finire qui, pensando al ritorno un senso di oppressione già si impossessava di me. Ma Luca non era del mio stesso avviso. Dalla sella del rifugio il panorama era davvero magnifico; con la neve caduta i giorni precedenti, il mondo sembrava diverso dalle altre volte , incantato, selvaggio, da proteggere come un bene prezioso. Diamo alle tante foto scattate il compito di ricordarcelo così immenso. Luca spingeva per proseguire, guardava la cresta che saliva all’anticima del Petroso con una luce smaniosa negli occhi. A nulla è valso avvisarlo della devastante stanchezza da cui ero stato ormai impossessato, voleva buttare uno sguardo lassù. Lo sappiamo che da li in poi le leggi del parco vietano di proseguire ma ci convinciamo, come bambini che sanno di stare per fare una marachella, che un’occhiata lassù, oltre quella appuntita cima non scombini poi così tanto gli equilibri. Anche Giorgio ci vuole provare, raccolgo le forze e mi metto a guidare la salita per evitare ritmi troppo eccessivi. Ma le mie gambe sono ormai imballate. La cresta dell’anticima del Petroso è affascinante e carica di cornici solide, la guglia lassù come naturale continuità di quelle linee nette delle cornici è una cattedrale che si lancia nel cielo. La natura intorno a noi è ardita, pendenze che si fanno sempre più accentuate, vuoti verso la valle meno devastanti solo perché ammantati di neve, cornici nevose da scontornare e affrontare con debita cautela. Immortalo Luca e Giorgio in momenti che sarà bello ricordare domani e lentamente avanzo. Giungo sotto la corona dell’anticima del Petroso con il cuore insolitamente in gola. Vedo la piramide sommitale e sento di non poterla affrontare tanto è infinita la stanchezza accumulata e lo sforzo prodotto fin qui. Guardo il pendio sulla nostra destra pensando ad un aggiramento della cima ma mi preoccupa la grossa cornice giù in fondo nella linea di cresta che sale ad ovest. Provo a fare qualche passo verso quel fianco che vertiginoso scende a valle senza interruzione di pendenza che ripari da una improvvida scivolata ma lo stato della neve è lo stesso incontrato finora. I passi affondano, muovono una quantità enorme di neve che tende ad accumularsi e scendere a valle, non sento la sicurezza dei ramponi che mordono il ghiaccio, tutto è in un precario equilibrio. Non me la sento, di certo è la stanchezza che ormai si è impossessata dei miei pensieri e della mia capacità di trovare serenità nella sicurezza dell’esperienza ma una campanellina risuona dentro di me. E’ arrivato il momento di rispettare il mio corpo e con esso il senso delle cose. Io avevo appena deciso che la giornata finiva qui se chiaramente per fine non si fosse pensato all’infinito ritorno a valle che ci aspettava. Luca e Giorgio non erano del mio avviso, uno sguardo lassù volevano darlo; in fondo li capivo, eravamo solo a quaranta metri dalla cima. Si sono cimentati per la dorsale rocciosa che sale diretta alla vetta; ghiaccio e roccia, la neve come sempre molle. Sono saliti di una ventina di metri, con qualche difficoltà ma con sicurezza poi vuoi le difficoltà crescenti, vuoi la mia decisione che aveva ormai spaccato il gruppo, vuoi il dover affrontare una discesa dallo stesso versante ancora più difficoltosa anche loro hanno desistito. Luca per lungo tempo è stato cupo e silenzioso; la sua irruenza ed il suo entusiasmo non si abitueranno mai a ciò che considera un fallimento. Sostiamo al rifugio per il tempo del pranzo, silenziosi, ognuno nei suoi pensieri come se la magnificenza del mondo che avevamo intorno non ci riguardasse, come se in quel momento avessimo dimenticato di essere in fondo dei privilegiati. Riprendiamo il ritorno scegliendo di salire per un tratto la cresta del Capraro scoperta dalla neve buttandoci poi in una unica discesa senza interruzione verso Passo Cavulo. Non è stata una passeggiata ma si è rivelata mossa vincente, scendere in queste condizioni è sempre più facile che dover salire. Il sole picchia, ci dobbiamo alleggerire. Da Passo Cavulo le traccie del nostro percorso formano un altro ricamo nell’immacolata uniformità del manto nevoso; il sole è alto, a picco su di noi. Il blu del cielo è a tratti così intenso da sfiorare le tonalità del nero. Uno sguardo indietro serve solo per fissare l’immagine di quelle montagne che difficilmente riusciremo a vedere ancora in quello stato di grazia. Per Luca invece è solo l’ammissione di un fallimento per non essere riuscito ad arrivare sulla vetta. La discesa è veloce, prima affondando sulle stesse orme di prima poi tagliando un bosco ancora più magico perché inondato ora di sole. Nuove luci mostrano gli stessi ambienti visti la mattina e per questo è come muoversi in un ambiente nuovo. Alle 15 e 30 raggiungiamo l’auto, io personalmente al limite dell’autonomia, i miei compagni molto più pimpanti. Come ovviamente doveva essere il ritorno in auto è stato un rivivere i vari momenti, un cercare gli errori commessi in fase di progettazione e valutazione, un capire il perché di tanta stanchezza provata. Ma per fortuna è stato anche un trovare il perché delle cose che si ha avuto la fortuna di poter vivere e vedere. Luca non era d’accordo, ma anche al cospetto delle foto che oggi abbiamo rivisto, personalmente ho rivalutato la giornata come una delle più intense e d uniche vissute in tanti anni di escursioni. Sono le unicità dei luoghi, i regali che la natura ti offre, i colori nuovi ed insoliti, i manti nevosi spessi ed incontaminati, la verginità insolita dei luoghi che hanno reso assolutamente unica ed irripetibile questa giornata. Ed è per questo che in testa a questo racconto ho scritto e lo ribadisco ora che è in questi frangenti che bisogna essere capaci di saper rimodellare gli accadimenti e ciò che ci sta intorno per non vanificare la giornata; è in questi casi che bisogna ricordarsi che la montagna è una fonte inesauribile di momenti di leggerezza e disporsi a raccogliere il massimo di ciò che ci verrà dato. Una immagine di un luogo non è mai la stessa ogni volta che andiamo e questa unicità ci dovrebbe disporre a vivere la natura sempre come un regalo immenso che ci viene concesso.